sabato 23 aprile 2011

All’improvviso la coscienza

A 29 anni la diagnosi: leucemia. Poi la paura, la ricerca di un donatore
compatibile, il trapianto. E oggi, un ragazzo felice che ha ritrovato se
stesso e l’amore.

Avevo 29 anni nel settembre del 2004,
quando iniziò quel mio calvario che aveva
un nome ben preciso: leucemia. Capii subito
che si trattava di una malattia alla quale bisognava
dare del ‘lei’, perché la malattia ti cambia
la vita, ti coinvolge completamente. Ti mette alla
prova in tutto e per tutto, dal fisico alla mente. La
battaglia psicologica è talvolta la peggiore, perché
non è semplice ritrovarsi – da un giorno all’altro
– privati di tutto ciò che eravamo prima, umiliati
nel fisico, sconvolti nella mente. E per la prima
volta, nella vita, mi trovai faccia a faccia con la
morte. Non è una banalità affermare che è proprio
in quei momenti che si capisce quanto fosse importante,
prima, anche la più scontata delle cose,
anche il semplice poter decidere che cosa fare
il giorno dopo. I fatti tristi, quelli che succedono
ogni giorno, le disgrazie, le malattie che uccidono
persone e distruggono famiglie non sono accadimenti
che riguardano soltanto gli altri: più spesso
di quanto s’immagini capita proprio a noi, oppure
a una persona alla quale vogliamo bene.
Quando mi ricoverarono stavo molto male, avvertivo
che c’era qualcosa che mi stava distruggendo,
ma ancora non sapevo da quale male fossi
affetto. Mi sistemarono in ematologia. Che cos’era
quel luogo? Dov’ero finito? Cosa stava succedendo?
Tanta confusione, la mia incapacità di
comprendere e, poi, la sentenza... Il viceprimario,
che non riuscivo a guardare negli occhi, una dopo
l’altra scandiva parole del tipo “il suo midollo non
funziona più… la sua ‘fabbrica del sangue’ è malata…
è come se fosse impazzita…”. Stava parlando
proprio di me? Realizzai d’avere un tumore
e tradussi le parole del medico sotto lo sguardo
impietrito di mio padre, che a pochi metri da me
aveva sentito tutto.
Tumore? Dall’alto della mia ignoranza, immaginai
uno stuolo di persone pronte a infierire su di me
attraverso un accanimento terapeutico che non
avrebbe portato ad alcun esito positivo. Non si
guarisce da un tumore! Mai, o quasi mai… Era
questo che credevo, perché questo avevo riscontrato
nelle persone malate. Una abitava vicino a
me: ricordo il suo pallore, la bandana per nascondere
la testa pelata, i problematici effetti delle terapie
e alla fine... la fine.
C’è un tempo per ogni cosa…
In reparto, però, mi fecero ben presto cambiare
idea: scoprii che, in realtà, si poteva guarire. Valeva
la pena provarci, dunque, non solo per me
stesso ma anche – e soprattutto – per la mia famiglia
e per le persone che mi avrebbero sempre
voluto bene. Fu questo pensiero a darmi una forza
incredibile, una forza che nemmeno immaginavo
d’avere. Per me si era aperto un nuovo mondo,
popolato di gente capace di offrire umanità e affetto.
E così la malattia che tanto mi aveva tolto,
tanto mi stava comunque dando.
È attraverso questo percorso che ho imparato a
conoscere meglio me stesso, i miei limiti, a capire
e rispettare la malattia. Ho capito di poter sempre
contare sulla mia famiglia: certo, questo l’avevo
sempre saputo, ma non credevo potesse arrivare
a tanto. Ho ricevuto dimostrazioni d’affetto da parte
di molte persone, amici e non solo. Ho toccato
con mano la sofferenza e, adesso, capisco meglio
l’altra faccia del quotidiano, che non contempla
egoismo, odio, razzismo, smania di successo…
ma, al contrario, altruismo, generosità, solidarietà,
stima reciproca.
Durante le degenze ho conosciuto persone stupende,
a cominciare dai compagni di stanza.
Ognuno diverso, ognuno con una vita da raccontare.
Persone con le quali ho condiviso ansie, paure,
sofferenze, ma dalle quali ho anche acquisito
importanti lezioni di vita, coraggio, tenacia, forza
di volontà. Voglia di vivere sempre e comunque.
Diversi di loro non ci sono più, ma con quanto
coraggio hanno affrontato persino l’ultimo dei loro
giorni! Un coraggio che, però, molte volte da solo
non basta. Già, il tempo mi ha insegnato che i fattori
principali per farcela sono tre: la fortuna, l’età
e la volontà. In ordine d’importanza. E quando
viene a mancare uno dei tre, tutto si complica.
… e un solo donatore per ognuno
Mi ritengo fortunato. Fortunato perché sono giovane
e, di conseguenza, forte. Ma fortunato soprattutto
perché, in tempi brevissimi, ho trovato
un donatore di midollo osseo compatibile che mi
ha permesso di rispettare le scadenze terapeutiche
e di non infierire troppo sul mio corpo, già
stanco e provato. Purtroppo, però, ci sono persone
che non hanno avuto la mia stessa fortuna.
In particolare, non potrò mai dimenticare Pierrot,
25 anni, un ragazzo come me, anzi più giovane
di me, con il quale ho condiviso per un periodo
stanza e pensieri. Il donatore per lui è stato trovato
quando ormai era troppo tardi, quando il suo
corpo non aveva più la forza di reagire.
Ognuno di noi dovrebbe impegnarsi perché per
nessun’altro, per tanti altri ragazzi come Pierrot,
non fosse mai troppo tardi. Non fosse la fine. E se
io potessi ancora farlo, sarei entusiasta all’idea di
avere la possibilità di salvare una vita. Un medico,
un giorno, mi disse: “È straordinario pensare
che, magari dall’altra parte del mondo, ognuno di
noi ha un solo e unico fratello, del quale ignora
l’esistenza”.
Io, oggi, sono in pace con me stesso come probabilmente
non lo sono mai stato. Sì, forse sono
ancora un po’ scassato, ma felice. Ho trovato anche
l’amore e, malgrado tutto, la vita mi sorride. Se
sono ritornato a stare bene lo devo a chi mi ha curato,
a chi mi ha sostenuto, a chi mi è stato vicino
e ha sofferto con me. Ma lo devo principalmente al
gesto di una persona che nemmeno conosco.
Claudio Tait